Il ruolo invisibile del coach nello sport tra riservatezza e successo.
Il valore del supporto nascosto nello sport
Nel panorama sportivo, l’attenzione mediatica e il clamore pubblico sono quasi sempre rivolti agli atleti, protagonisti indiscussi di vittorie, record e imprese memorabili. Tuttavia, dietro ogni grande risultato si cela un lavoro di squadra molto più ampio, che coinvolge una rete di figure professionali spesso poco visibili ma fondamentali: allenatori, preparatori atletici, fisioterapisti e mental coach. Questi professionisti svolgono un ruolo essenziale nel plasmare le performance degli atleti, accompagnandoli non solo dal punto di vista tecnico, ma anche mentale ed emotivo. Il loro contributo, seppur decisivo, è spesso nascosto, perché il successo sportivo tende a celebrare chi compete in prima persona. Eppure, senza il sostegno costante e competente di chi sta dietro le quinte, molti risultati non sarebbero possibili. Il mental coach, in particolare, è colui che lavora per potenziare le risorse interiori dell’atleta, aiutarlo a gestire la pressione, a superare momenti di crisi e a mantenere alta la motivazione. Questo lavoro richiede competenze specifiche, sensibilità e una profonda capacità di ascolto.
La riservatezza come fondamento del coaching
Uno dei pilastri imprescindibili nel rapporto tra mental coach e atleta è la riservatezza. La fiducia è la base su cui si costruisce ogni percorso di coaching efficace: l’atleta deve poter confidare apertamente le proprie paure, insicurezze, difficoltà e obiettivi senza alcun timore che queste informazioni vengano divulgate al di fuori del rapporto professionale. La riservatezza non è solo una questione etica, ma anche un elemento strategico: solo in un clima di totale sicurezza emotiva l’atleta può esplorare le proprie vulnerabilità e lavorare su di esse per trasformarle in punti di forza. Quando i dettagli del lavoro di coaching vengono resi pubblici, si rischia di compromettere questo delicato equilibrio, mettendo a repentaglio la relazione di fiducia e, di conseguenza, l’efficacia stessa del percorso. Purtroppo, in tempi recenti, si è assistito a un aumento della tendenza a condividere pubblicamente informazioni e aneddoti riguardanti il lavoro con gli atleti, anche da parte di professionisti che dovrebbero invece tutelare la privacy dei loro clienti. Questo fenomeno può essere motivato dal desiderio di visibilità o dal tentativo di dimostrare competenza, ma rischia di trasformare il coaching in uno spettacolo, anziché in un processo di crescita personale e sportiva.
L’equilibrio tra visibilità e centralità dell’atleta
Il desiderio di riconoscimento è comprensibile e umano: ogni professionista vuole che il proprio lavoro venga apprezzato e valorizzato. Tuttavia, nel contesto sportivo, è fondamentale mantenere chiara la gerarchia delle priorità. Il vero protagonista deve essere sempre l’atleta, con le sue esigenze, i suoi sogni e le sue difficoltà. Chi lavora al suo fianco deve saper restare in secondo piano, evitando di appropriarsi di meriti che non gli spettano o di rubare la scena. Quando un allenatore o un mental coach si mette in mostra a scapito dell’atleta, si rischia di compromettere la relazione di fiducia e di creare tensioni all’interno dello staff. Inoltre, questo atteggiamento può distogliere l’attenzione dai bisogni reali dell’atleta, che invece dovrebbe essere al centro di ogni decisione e strategia. Un altro aspetto importante riguarda la responsabilità nei momenti difficili. Spesso, quando le cose non vanno come previsto, chi lavora con gli atleti tende a cercare giustificazioni o a scaricare la colpa su altri. Sarebbe invece auspicabile che queste figure professionali si assumessero la propria parte di responsabilità, riconoscendo i propri limiti e contribuendo a trovare soluzioni condivise. Solo così si può costruire un ambiente di lavoro sano e produttivo, che favorisca la crescita dell’atleta.
L’arte della discrezione: essere un outsider
Adottare un ruolo defilato nel coaching può rappresentare una scelta di grande valore. Essere un “outsider” significa lavorare in modo discreto, senza cercare visibilità, osservando la situazione da una prospettiva esterna che permette di mantenere lucidità e obiettività. Questo approccio consente di intervenire con efficacia, aiutando l’atleta a uscire dalla propria zona di comfort e a superare i limiti autoimposti. La discrezione è anche un segno di rispetto verso l’atleta e verso l’intero staff tecnico. Raramente partecipo agli allenamenti, a meno che non sia richiesto dallo staff tecnico, e prima di iniziare un percorso con un atleta mi prendo sempre il tempo di conoscere l’ambiente in cui opera e di costruire un’alleanza solida con l’allenatore. Questo permette di definire obiettivi comuni e di lavorare in sinergia, evitando sovrapposizioni o conflitti. Gli atleti spesso apprezzano questa modalità di lavoro perché possono vivere pienamente i loro momenti di gloria senza sentirsi messi in ombra o sotto pressione da chi li supporta. La possibilità di godersi il successo in modo autentico, senza interferenze, è un aspetto fondamentale per il loro equilibrio psicologico.
Soddisfazione e responsabilità nel lavoro del mental coach
Il lavoro del mental coach è fatto di equilibri sottili e di grande sensibilità. La vera soddisfazione non deriva dai riflettori o dal riconoscimento pubblico, ma dalla consapevolezza di aver accompagnato un atleta nel suo percorso di crescita, aiutandolo a scoprire e valorizzare le proprie risorse interiori. Saper restare nell’ombra, senza cercare protagonismo, è una scelta di maturità e professionalità. Questa attitudine richiede anche una forte capacità di assumersi responsabilità, soprattutto quando le cose non vanno come previsto. Il coaching non è una formula magica che garantisce sempre il successo, ma un processo complesso che coinvolge molte variabili. Accettare i propri limiti e lavorare per migliorarsi continuamente è parte integrante del ruolo. Rivolgo quindi un invito a tutti coloro che lavorano a fianco degli atleti: siete capaci di sostenere i vostri sportivi senza voler essere al centro dell’attenzione? Riuscite a trarre soddisfazione dal vostro lavoro anche quando non viene celebrato pubblicamente? Forse, proprio nella capacità di rimanere “in disparte” si nasconde la vera grandezza di chi sceglie di essere coach. In un’epoca in cui la visibilità sembra essere il valore supremo, riscoprire il fascino della discrezione e la forza del lavoro silenzioso può fare la differenza non solo per gli atleti, ma anche per chi li accompagna nel loro viaggio verso il successo. Il rispetto per la privacy, l’umiltà nel ruolo e la capacità di lavorare con dedizione senza cercare applausi sono qualità che rendono un coach davvero prezioso e insostituibile.
Ezio Dau






