L’etica di un operatore sportivo. Sostenere l’atleta senza invadere il suo spazio.
Negli ultimi anni lo sport italiano ha regalato grandi successi, grandi soddisfazioni e tanto entusiasmo agli appassionati delle varie discipline. Secondo me è dovuto anche al fatto che gli atleti hanno cominciato a curare meglio il loro aspetto mentale allenandolo con costanza così come fanno per la preparazione atletica e per la tecnica. In tutta questa girandola di emozioni mi colpisce leggere, talvolta, le dichiarazioni di una particolare coach professionista che da tempo segue diversi grandi atleti e che in varie interviste racconta delle esperienze di coaching fatte coi propri clienti e addirittura ne svela i contenuti sia alla carta stampata che alla tv. Premetto che non ho nessun dubbio sulle capacità professionali della collega, che peraltro stimo molto, ma non mi entusiasma molto il fatto che sul suo sito internet ci siano nomi e fotografie di tutti gli atleti che segue e vari articoli in cui racconta il rapporto che ha con ognuno di loro di violando in qualche modo la riservatezza, che è un aspetto fondamentale che un coach dovrebbe rispettare nella pratica del suo lavoro. Oggi vi porto questa riflessione perché tante volte nello sport ho visto dirigenti, allenatori e adesso anche professionisti di altro genere cercare di mettersi in mostra brillando di luce riflessa. Ma per me il concetto è uno solo: al centro dell’attenzione ci deve essere l’atleta con tutti i suoi bisogni e le sue difficoltà. Quando un professionista che gravita intorno ad un atleta si arroga il diritto di prendersi dei meriti che non ha, non sta svolgendo al meglio il suo lavoro. Sarebbe bello, invece, che qualche volta si ci si prendesse anche qualche responsabilità quando le cose non vanno per il meglio. Io credo che il modo migliore sia quello di stare un po’ al di fuori del cono di luce che avvolge un atleta. Per quanto mi riguarda, raramente partecipo agli allenamenti a bordo campo, a meno che non ci sia una richiesta specifica dello staff tecnico, non intraprendo mai un lavoro con un atleta se prima non mi sono preso l’impegno di conoscere l’ambiente in cui opera e quando posso creo anche una connessione con l’allenatore che ci possa permettere di formulare insieme strategie per aiutarlo quanto più possibile nella crescita della sua performance. Personalmente mi ritengo privilegiato di poter assistere alla vita sportiva di un atleta da un punto di vista che sia completamente diverso dal suo poiché mi aiuta a vedere la situazione con occhi diversi e ad essere più efficace quando devo sensibilizzarlo ad uscire dalla sua zona di comodo, rendendo la sua “forma mentis” meno statica e più dinamica. Quando l’atleta raggiunge i suoi obiettivi, io traggo comunque soddisfazione anche se ho lavorato un po’ sottotraccia e devo dirvi che gli atleti in fondo lo apprezzano perché possono godersi appieno il loro momento di soddisfazione personale. Ad un coach, poter lavorare sullo sfondo e non sotto i riflettori, permette di lavorare in tranquillità, senza interferenze e con la fiducia dell’atleta che non si sente messo in ombra e in discussione. Aggiungerei che lo tiene anche lontano dalla tentazione di essere giudicante, che risulta spesso mal tollerato dagli atleti. E voi invece come sostenete il vostro atleta? Ce la fate a rimanere un po’ in disparte? Riuscite comunque a trarre soddisfazione dal vostro lavoro anche se non viene celebrato come vi aspettereste?
Ezio Dau


